IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza (art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87) nel procedimento n. 534/98 R.G. Pretura, nei confronti di Passini Ivano per il delitto di cui all'art. 590, secondo e terzo comma, c.p.; In base al ruolo di cui all'art. 20 del decreto ministeriale 30 settembre 1989, n. 334, il processo in epigrafe, fissato in prosecuzione, e' stato chiamato al termine dell'udienza penale del 9 novembre 1998, nel corso della quale questo giudice ha ripetutamente affrontato questioni applicative degli artt. 486 e 97 c.p.p. in relazione a dichiarazioni di astensione dallo svolgimento di attivita' difensiva d'udienza formulate dai difensori di fiducia o d'ufficio e riferite a protesta contro una recente sentenza della Corte costituzionale. E' stata pronunciata una serie di ordinanze con le quali, in applicazione dell'art. 486, quinto comma, c.p.p., sono state rigettate le istanze di rinvio, dovendosi ritenere non legittimo l'impedimento costituito da un'astensione dalle udienze la cui deliberazione formale gli avvocati non erano in grado di sottoporre al giudice, e che non rispettava le regole in materia di preavviso che la stessa Unione delle camere penali italiane si era data con il codice di autoregolamentazione del 6 giugno 1997 (a tale proposito nelle ordinanze lette in udienza si faceva rilevare come l'ipotesi di "grave attentato ai diritti fondamentali dei cittadini e alle garanzie fondamentali del processo", che avrebbe giustificato l'omissione del termine di preavviso, non potesse in alcun modo essere riferita ad una sentenza della Corte costituzionale, atto pienamente inserito nei vigente ordinamento costituzionale, su tema oggetto di precedente amplissima elaborazione giurisprudenziale e dottrinale). I difensori di Ivano Passini, al contrario, non hanno formulato alcuna istanza di rinvio ne' si sono richiamati all'art. 486, quinto comma, c.p.p. Con una breve dichiarazione in apertura hanno chiesto che, puramente e semplicemente, il giudice prendesse atto dell'astensione dallo svolgimento di attivita' difensiva, dovendo la stessa, per necessita' di rispetto del diritto sancito dall'art. 40 della Costituzione, comportare ipso facto la sospensione del processo. L'iniziativa dei difensori deve qualificarsi come dichiarazione orale attinente al procedimento, verbalizzata ai sensi dell'art. 141 c.p.p., non comportante, in coerenza con la posizione assunta, lo svolgimento di alcuna ulteriore attivita' processuale. Il diretto riferimento all'esercizio del diritto di cui all'art. 40 della Costituzione colloca l'iniziativa dei difensori su un piano parzialmente diverso rispetto a quello individuato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 27 maggio 1996, n. 171, e non consente di applicare d'ufficio l'art. 486, quinto comma, c.p.p., a fronte di una esplicita esclusione di istanza in tal senso. La richiesta di "presa d'atto" dell'astensione nella sua materialita', dovrebbe quindi integrare un'ipotesi eccezionale di sospensione del processo direttamente fondata sull'esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato. Il rifiuto di veder ridurre l'esercizio del diritto di sciopero ad una predefinita forma o istanza processuale, e, al contrario, la richiesta di considerarlo come fatto giuridico extraprocessuale, fa individuare quale unica norma applicabile l'art. 477 c.p.p. Quantunque la questione si ponga per l'intero articolo, pare al remittente di dover considerare rilevante per il processo in corso il solo secondo comma, trattandosi di dibattimento gia' aperto. Orbene la norma risulta confliggere con l'art. 40 della Costituzione in quanto, rimettendo al giudice l'individuazione della sussistenza di "ragioni di assoluta necessita'" per la sospensione del dibattimento, gli affida una valutazione discrezionale, intesa a contemperare - secondo quanto la Corte costituzionale ha chiarito con la sentenza n. 203/1992 - il principio della concentrazione del dibattimento con l'esigenza di consentire sospensioni di breve durata per motivi non esplicitamente codificati. L'applicazione della norma nella attuale formulazione porterebbe quindi a risultati non dissimili da quelli dell'applicazione dell'art. 486, quinto comma, c.p.p., alla luce della dominante giurisprudenza di legittimita'. D'altro canto, la possibilita' di nominare un difensore d'ufficio in sostituzione di quello astenutosi, escluderebbe l'"assoluta necessita'" di sospendere il dibattimento. Laddove si ritenga di ricondurre l'astensione dalle udienze degli avvocati direttamente all'esercizio del diritto garantito dall'art. 40 della Costituzione, il giudice dovrebbe invece limitarsi a prendere atto della proclamazione dello sciopero da parte di un ente esponenziale di natura sindacale e della adesione individuale, senza alcun potere di valutazione - fondato su norme processuali - della legittimita' dell'iniziativa ovvero della sua compatibilita' con il principio di concentrazione processuale. Il diretto richiamo all'art. 40 della Costituzione appare tanto piu' significativo alla luce di quanto si legge nella motivazione di Corte cost. n. 171/1996: dopo aver affermato che "l'astensione da ogni attivita' defensionale non puo' configurarsi come diritto di sciopero e non ricade sotto la specifica protezione dell'art. 40", la Corte osserva come le decisioni giurisprudenziali "tendono a riconoscere al giudice il potere di bilanciare i valori in conflitto e, conseguentemente, di far recedere la ''liberta' sindacale'' di fronte a valori costituzionali primari. Conforme a Costituzione, tale linea e', fra le due possibili, quella da privilegiare, secondo quanto si desume dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di interpretazione adeguatrice". Ma se di liberta' sindacale e diritto di sciopero si deve parlare, pertinente appare il richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 222 del 17 luglio 1975, che, occupandosi della legittimita' dell'art. 506 in relazione all'art. 505 c.p., defini' "sciopero" l'astensione dal lavoro "da parte di una pluralita' di lavoratori che agiscano d'accordo per il perseguimento di un comune interesse" a prescindere da loro rapporti di subordinazione o parasubordinazione (nel caso si trattava di piccoli esercenti commerciali). Analogamente va qualificata l'astensione dal lavoro di professionisti intellettuali quali gli avvocati penalisti, liberamente associati all'U.C.P.I. o a sue articolazioni locali, i quali ritengano di dover interrompere per motivi politici una parte delle loro prestazioni. Lo strumento per il bilanciamento dei valori non puo' rinvenirsi in una norma - nel processo a quo l'art. 477, secondo comma, c.p.p. - che rimette comunque al giudice la valutazione comparativa e gli consente di attivare meccanismi processuali tali da vanificare l'esercizio del diritto di sciopero, in violazione dell'art. 40 Cost. La piu' volte citata sentenza n. 171/1996 ha tuttavia ritenuto che "l'astensione di avvocati e procuratori da ogni attivita' defensionale non rientra compiutamente, per la sua morfologia nei meccanismi procedurali previsti dagli artt. 8, 9, 10, 12, 13 e 14 della legge n. 146", rimettendo alla competenza del legislatore l'individuazione di "misure atte a realizzare l'equilibrata tutela dei beni coinvolti". In questo quadro, peraltro, il fatto giuridico dell'astensione dalle udienze (e non "da ogni attivita' defensionale": si tratta di sciopero articolato, che rende massimo il danno per i cittadini e minimo per gli scioperanti) esiste, e laddove non possa essere governato con gli ordinari strumenti processuali, secondo la prospettazione che precede, produce comunque effetti lesivi del principio di buon andamento dell'amministrazione, di cui all'art. 97 Cost., che secondo condiviso insegnamento vale anche per l'amministrazione delle attivita' giurisdizionali. A fronte poi di un'attenzione completamente concentrata sui diritti degli imputati, uno sciopero quale fatto giuridico non regolato, produce effetti lesivi dei diritti delle vittime dei reati attraverso l'allungamento dei tempi di celebrazione dei processi, la cui conclusione con una pronuncia sul fatto-reato costituisce rimozione della disuguaglianza a danno della vittima del reato che la commissione di esso ha provocato, turbando l'ordinarieta' della sua vita; e' con il ripristino della violata legalita', che si attua, in senso dinamico, il diritto fondato sull'art. 3, secondo comma, della Costituzione. Si rende quindi necessario sottoporre all'esame di legittimita' della Corte - assumendo a parametro le norme costituzionali da ultimo citate - quegli articoli della legge 12 giugno 1990, n. 146, che prevedono il minimo assoluto di garanzia dei servizi individuati nell'art. 1, secondo comma; avendo presente che il regolare funzionamento dei servizi di giustizia costituisce garanzia indiretta anche degli altri beni e diritti ivi indicati. In particolare si ritiene costituzionalmente illegittima la limitazione soggettiva contenuta negli artt. 2 e 8 della legge n. 146/1990 laddove ci si riferisce ad "amministrazioni" e "imprese" erogatrici dei servizi essenziali, poiche' tali regole dovrebbero invece essere rivolte alla generalita' dei "soggetti" il cui diritto riconosciuto allo sciopero e' in grado, se non regolato, di confliggere con norme costituzionali (in specie: l'esercizio del diritto di sciopero degli avvocati confligge con i richiamati artt. 97 e 3, secondo comma, della Costituzione). La mancata prospettazione della questione con riferimento agli altri articoli della stessa legge n. 146/1990 in cui pure si fa riferimento ad "amministrazioni" e "imprese" discende dalla peculiarita' dei soggetti del cui sciopero si discute e dai conseguenti limiti di rilevanza nel processo a quo. Si intende altresi' prospettare le questioni, assumendo a base delle stesse l'inquadramento della figura del difensore nel processo penale che pare a questo giudice remittente possibile in base alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, cosi' come sul punto interpretata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Cio' in particolare richiamando le sentenze 20 maggio 1998, Schopfer c. Svizzera; e 22 ottobre 1997, Papageorgiou c. Grecia. Nel par.29 della prima si legge che lo statuto specifico degli avvocati li colloca in una situazione centrale nell'amministrazione della giustizia, quali intermediari tra i cittadini sottoposti a giudizio e i tribunali; cio' giustifica l'esistenza di norme di condotta imposte in generale ai membri dell'avvocatura; poiche' l'azione dei tribunali, garanti della giustizia la cui missione e' fondamentale in uno Stato di diritto, ha bisogno della fiducia dei cittadini, il ruolo chiave degli avvocati si esercita in questo campo in quanto da essi ci si puo' aspettare che contribuiscano al buon funzionamento della giustizia nonche' alla fiducia in essa dei cittadini. Nei par.46-49 della seconda, affrontando il problema della durata del procedimento, si censura la giurisdizione che non sorveglia gli effetti perniciosi di un lungo sciopero degli avvocati. In sintesi, lo sciopero degli avvocati, o rappresenta un impedimento di natura processuale la cui efficacia sospensiva e' rimessa alla valutazione del giudice (secondo il diritto vivente che si e' andato sviluppando nell'applicazione dell'art. 486, quinto comma, c.p.p.), ovvero e' un fatto giuridico costituente manifestazione di un diritto costituzionalmente garantito, non riconducibile a valutazioni endoprocessuali, che la peculiarita' della veste e del ruolo degli scioperanti rende potenzialmente lesivo di altre norme costituzionali, in difetto di tutela - mediante un'applicazione diretta agli avvocati delle norme della legge n. 146/1990 modellate allo scopo - dei diritti da esse garantiti.